
Come ci si sente a fare un colloquio di lavoro con un'intelligenza artificiale? (mistergadget.tech)
Sempre più aziende usano l’IA per il primo screening dei candidati, promettendo efficienza e rapidità. Ma l’esperienza è innovativa o disumanizzante? E possiamo davvero fidarci di un algoritmo per giudicare le persone?
Il mercato del lavoro, oggi, è diventato un’arena spietatamente competitiva. L’etichetta “oltre 100 candidati” che appare su quasi ogni annuncio di lavoro su LinkedIn è un chiaro segnale della pressione esistente. Se da un lato è difficile per un candidato emergere, dall’altro il numero crescente di candidature rende quasi impossibile per i recruiter esaminare tutti con la dovuta attenzione.
L’automazione nel processo di selezione non è una novità: da anni gli strumenti di screening analizzano i curriculum per filtrare i candidati. Oggi, però, si sta andando oltre. L’ultima novità del settore sono i colloqui di lavoro gestiti interamente da un’intelligenza artificiale. Le aziende li utilizzano per il primo ciclo di interviste, un modo per vagliare un gran numero di persone con un impiego minimo di risorse umane. Ma cosa significa, per un candidato, trovarsi dall’altra parte dello schermo? E quali sono i rischi di affidare a un algoritmo un compito così delicato?
Indice
Dopo un primo screening del curriculum, al candidato viene chiesto di fissare un colloquio virtuale, spesso con la specifica che sarà condotto da un’intelligenza artificiale. L’esperienza varia a seconda dello strumento utilizzato dall’azienda, ma ci sono alcuni elementi comuni.
L’esperienza è spesso descritta come surreale e meccanica: ci si trova a parlare con una voce sintetica in una riunione virtuale, consapevoli che ogni parola, e talvolta ogni micro-espressione facciale, viene analizzata da un algoritmo. Molti di questi sistemi, infatti, richiedono l’attivazione della videocamera per analizzare il linguaggio del corpo, i movimenti della testa e il contatto visivo del candidato.

L’IA pone domande pertinenti al ruolo, che possono spaziare da quesiti generici sul background del candidato a domande tecniche specifiche. I sistemi più avanzati sono anche in grado di porre domande di approfondimento basate sulle risposte ricevute, ma la conversazione manca della sfumatura, dell’empatia e della flessibilità di un intervistatore umano. Alcuni bot tentano di emulare il comportamento umano, facendo pause o commentando positivamente una risposta, ma l’effetto, come descritto da un utente su Reddit, è spesso quello di “parlare con HAL 9000” del film 2001: Odissea nello spazio.
I difetti del sistema: pregiudizi algoritmici e disumanizzazione
Se da un lato i colloqui con l’IA promettono efficienza, dall’altro sollevano enormi preoccupazioni, sia etiche che pratiche.
Il primo, e più grave, è il rischio dei pregiudizi algoritmici (bias). I modelli di IA vengono addestrati su enormi set di dati. Se questi dati riflettono i pregiudizi esistenti nel mondo del lavoro (ad esempio, dati storici in cui certi ruoli sono stati prevalentemente ricoperti da uomini), l’IA imparerà e applicherà questi stessi schemi. Il rischio più grande è che i modelli di IA, addestrati su set di dati che riflettono i pregiudizi del passato, possano amplificare la discriminazione nel processo di assunzione, penalizzando sistematicamente i candidati in base a sesso, etnia o età. Uno studio della Carnegie Mellon University ha già mostrato come gli algoritmi tendano a mostrare meno annunci per lavori ben pagati alle candidate donne, basandosi proprio sui dati storici del mercato.

Il secondo problema è la disumanizzazione del processo. Un colloquio di lavoro è un’interazione a due vie: anche il candidato sta valutando l’azienda. Trovarsi di fronte un bot può essere un’esperienza fredda e alienante, che erode la fiducia del candidato verso la potenziale azienda. Un sondaggio di Newsweek del 2024 ha rivelato che il 43% delle persone in cerca di lavoro si sente a disagio all’idea di essere intervistato da un’IA.
Efficienza contro empatia: una scelta da ponderare
I colloqui gestiti dall’intelligenza artificiale offrono un’innegabile efficienza ai recruiter, ma questa efficienza ha un costo. Rimuovere il fattore umano da un processo così critico, anche solo nelle fasi iniziali, significa riporre una fiducia enorme in sistemi che potrebbero non essere ancora pronti per una tale responsabilità. L’IA può analizzare dati, ma fatica a cogliere le “soft skills”, la creatività o la compatibilità culturale di un candidato. Il dibattito tra l’efficienza degli algoritmi e l’insostituibile valore dell’empatia umana è appena iniziato.