Uber, la nuova "opportunità" per gli autisti: addestrare l'IA per pochi centesimi (mistergadget.tech)
L’azienda lancia un programma per far guadagnare i suoi partner durante i tempi morti, ma l’iniziativa solleva interrogativi sul valore del lavoro umano nell’era dell’intelligenza artificiale.
Uber sta sperimentando un nuovo modo per tenere occupati i suoi autisti e, in teoria, farli guadagnare di più. La novità, però, non ha nulla a che fare con il trasporto di passeggeri o la consegna di cibo. Attraverso un programma pilota chiamato “attività digitali”, l’azienda invita i suoi partner a completare piccoli lavori online, come registrare brevi clip vocali o caricare foto, per aiutare ad addestrare i modelli di intelligenza artificiale della sua divisione AI Solutions.
L’idea è semplice: trasformare i tempi di inattività, tra una corsa e l’altra, in momenti produttivi. Dopo un beta test di successo in India, Uber prevede di estendere la prova agli Stati Uniti entro la fine del 2025. I conducenti che vorranno partecipare potranno aderire tramite il “Work Hub” dell’app, dove troveranno una serie di compiti da completare. Una volta terminata un’attività, il pagamento viene accreditato sul saldo dell’autista entro 24 ore.
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In cosa consistono le “attività digitali”?
Ma di che tipo di attività si tratta, e soprattutto, quanto pagano? Le mansioni proposte sono quelle tipiche dell’addestramento di un modello di IA: registrare la propria voce mentre si parla nella propria lingua madre, inviare documenti scritti, o caricare immagini specifiche della propria vita quotidiana. Invece di raccogliere dati da internet, Uber sta essenzialmente attingendo alla sua enorme base di utenti per creare un set di dati unico e proprietario. Questi dati andranno ad alimentare il database della divisione AI Solutions, che a sua volta li fornisce ad aziende terze per lo sviluppo dei loro sistemi di machine learning.
Il vero punto dolente, però, sembra essere la retribuzione. Sebbene Uber affermi che il compenso dipenderà dalla complessità e dal tempo richiesto per ogni compito, gli esempi mostrati durante la presentazione del progetto suggeriscono cifre irrisorie. Si parla di compensi che vanno da 50 centesimi a un dollaro per un’attività della durata di due o tre minuti. Inoltre, la disponibilità di questi “lavoretti” non sarà costante, ma varierà in base alle esigenze dei clienti di Uber, rischiando di essere molto sporadica.
Sfruttare la rete in un mercato in piena esplosione
L’incursione di Uber nel settore della formazione per l’IA è una mossa strategicamente astuta. L’azienda ha un’opportunità unica di sfruttare la sua rete esistente di milioni di autisti per creare una forza lavoro globalepronta a eseguire micro-lavori di addestramento AI (un processo noto come data labeling o etichettatura dei dati).
Questo mercato è in piena esplosione. Valutato quasi 4 miliardi di dollari nel 2024, si prevede che supererà i 17 miliardi entro il 2030. I giganti della tecnologia come Meta stanno investendo decine di miliardi per espandere i propri data center e acquisire aziende specializzate proprio nell’etichettatura dei dati, un processo fondamentale per migliorare l’efficacia dei modelli di intelligenza artificiale.
L’altra faccia della medaglia: un nuovo lavoro o un nuovo sfruttamento?
Tuttavia, l’iniziativa di Uber solleva questioni spinose. L’industria dell’etichettatura dei dati è già nota per le sue condizioni di lavoro precarie e per le paghe estremamente basse. Alcuni “annotatori” di dati in giro per il mondo guadagnano appena 2,50 dollari l’ora, senza benefit, mentre contribuiscono a costruire tecnologie che alimentano aziende con valutazioni da migliaia di miliardi di dollari.
L’ironia della situazione non sfuggirà di certo ai conducenti di Uber. Per una categoria di lavoratori che da anni lamenta una retribuzione insufficiente, vedersi offrire “un’opportunità” da pochi centesimi per addestrare i sistemi che, in futuro, potrebbero persino rendere obsoleto il loro lavoro, ha il sapore della beffa. Se da un lato il programma offre un modo per monetizzare tempi altrimenti morti, dall’altro consolida un modello di “micro-lavoro” a bassissimo costo, sollevando seri interrogativi etici sul valore che le grandi aziende tecnologiche attribuiscono al contributo umano. La domanda che resta è se questa sia una vera opportunità o semplicemente una nuova, più tecnologica, forma di lavoro precario.