
Secondo indiscrezioni i grandi gruppi cinesi vorrebbero abbandonare i servizi di Google (mistergadget.tech)
Nel mondo degli smartphone, il vento potrebbe cambiare direzione. Secondo le indiscrezioni riportate da diverse testate tech su scala globale, sarebbe in corso una trattativa tra alcuni dei principali produttori cinesi – Xiaomi, Huawei e il colosso BBK, che controlla Realme, Oppo, OnePlus e Vivo – per creare un ecosistema operativo indipendente, completamente slegato dai servizi Google. Un’idea che sembra una mossa di forza, ma che rischia di trasformarsi in un boomerang, almeno in Occidente.
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Una fuga strategica o un harakiri annunciato?
Il punto è semplice: in Cina, dove i servizi di Google sono già bloccati da anni, questa mossa può avere senso. Ma appena si mette piede fuori dalla Grande Muraglia, le cose cambiano. Google non è un semplice fornitore di app, è un’infrastruttura culturale. Gmail, Maps, Google Foto, Drive, YouTube, Assistant… sono strumenti che scandiscono la vita quotidiana degli utenti. Pensare di tagliare il cordone con Mountain View per inseguire una nuova indipendenza software può essere interpretato come un colpo di genio, oppure come un suicidio commerciale.
Huawei ha già vissuto questo film. Dopo l’embargo imposto dagli Stati Uniti, l’azienda ha provato a rimettersi in carreggiata con HarmonyOS e AppGallery. Il risultato? Fuori dalla Cina, i suoi numeri sono crollati. Lo smartphone top di gamma Huawei Pura 70 Pro, ad esempio, può anche essere un gioiello tecnologico, ma senza l’ecosistema Google è un prodotto zoppo nel mercato europeo e americano. Ripetere la stessa strada su larga scala, con tutto il blocco cinese compatto, non sembra un’idea brillante.
Il regalo perfetto per Apple, Samsung e Pixel
Se davvero Xiaomi, Oppo, OnePlus e compagnia dovessero rinunciare ai servizi di Google, il risultato più prevedibile è un aumento immediato delle quote di mercato per i soliti noti. Apple, Samsung e persino i Pixel di Google – finora outsider con ambizioni moderate – si troverebbero spalancate le porte di un mercato orfano dei “soliti cinesi”. Un mercato che, nonostante il rallentamento post-pandemia, conta ancora centinaia di milioni di utenti tra Europa e Stati Uniti.
Una decisione congiunta come quella ipotizzata, invece di rafforzare la posizione dei produttori cinesi, rischierebbe di accelerarne la marginalizzazione. Per non parlare degli sviluppatori, che si troverebbero improvvisamente davanti a un nuovo sistema da supportare, con nuove API, nuove regole, nuovi dubbi. E gli utenti? Quelli, semplicemente, resterebbero dove sono: nel rassicurante mondo di Android con Play Store, backup automatici e Google Pay.
La tentazione di mollare l’Occidente
Ma forse – e qui viene il punto più interessante – a qualcuno l’idea di mollare non dispiace affatto. Il peso del mercato occidentale, per alcuni produttori, sta diventando sempre meno rilevante. I numeri lo dicono chiaro: Samsung e Apple continuano a dominare in Europa e negli USA, mentre i brand cinesi arrancano. I costi di distribuzione, marketing, supporto post-vendita e aggiornamenti software sono alti. E la penetrazione? Dopo il calo di Huawei, nessun brand è riuscito davvero a sfondare.

È possibile che l’obiettivo strategico non sia quello di costruire un sistema operativo alternativo per il mondo, ma contro il mondo occidentale. Un sistema pensato per consolidare la presenza in Asia, India, Sud America e Africa. Mercati meno dipendenti da Google, più sensibili al prezzo, e soprattutto più aperti a soluzioni alternative. In quest’ottica, un sistema operativo autonomo diventa una leva geopolitica, prima ancora che tecnologica.
Troppa frammentazione, pochi benefici
Va anche detto che le precedenti iniziative “anti-Google” non hanno lasciato grandi ricordi. Amazon con Fire OS ha fatto fatica. Huawei con HarmonyOS ci sta ancora provando. E perfino Samsung, che in passato aveva flirtato con Tizen, è rientrata subito nei ranghi. Perché? Perché creare un sistema operativo non è difficile. Difficile è farlo diventare rilevante. Serve un app store completo, un ecosistema credibile, strumenti per gli sviluppatori, incentivi per i partner e soprattutto… utenti disposti a provarci.
Oggi, in un mondo in cui la parola “Android” è sinonimo di smartphone, cambiare sistema equivale a cambiare abitudini, linguaggio, identità digitale. E nessuno lo fa a cuor leggero, nemmeno se lo smartphone costa 199 euro.
Uno scenario da osservare con attenzione
Non è ancora chiaro se questo progetto prenderà forma, né quanto sarà radicale. Potrebbe trattarsi di una semplice collaborazione su App Store alternativi, o di una vera e propria piattaforma da contrapporre ad Android. Ma qualunque sia l’esito, sarà interessante osservare come si muoveranno i singoli brand.
Xiaomi, ad esempio, ha una solida fanbase anche in Europa, così come OnePlus. Rinunciare al supporto di Google significherebbe bruciare tutto il lavoro fatto in anni. Ma è proprio questo il punto: stanno davvero cercando un’alternativa, o stanno solo minacciando di cambiare tavolo per ottenere più voce in capitolo?
Google resta il vero ago della bilancia
Alla fine dei giochi, il futuro di Android – e di questi produttori – si gioca sulla relazione con Google. Non è solo una questione tecnica: è una questione di potere, controllo dei dati, margini di manovra. E forse, per i produttori cinesi, è arrivato il momento di smettere di giocare nel giardino degli altri. Il problema è che quel giardino, per quanto recintato, è pieno di gente. E per adesso, nessuno ha davvero voglia di traslocare.
La sensazione che una scelta in questa direzione sia una strada senza ritorno, il cui prezzo è la perdita pressoché totale di una fetta importante del mercato, siamo sicuri che sia la scelta giusta?